L’ACQUA TOFANA notizie raccolte da SALVATORE SALOMONE MARINO tiratura di soli 50 esemplari
Palermo L. PEDONE LAURIEL editore 1882
Nel pomeriggio del cinque luglio I659, cinque donne pendevano dalla forca eretta: in Campo di Fiori in Roma, e tutt’i cittadini, senza distinzione di ceto o di sesso o di età, si affollnavano per assistere all’orrendo spettacolo. Tanta curiosità era giustificatissima; perocché una strage infinita ed inaudita, un “ sordo macello ” (come ben fu detto) di mariti, aveva funestato per oltre quattro anni l’intera città; e solo ora la giustizia vendicava, almeno in parte, si innumerevole serie di omicidj, de’ quali, colpevoli principali erano appunto quelle cinque megere, fabbricatrici e dispensatrici di un’Acqua micidiale tanto, quanto misteriosa; Un’acqua “chiara, fresca e dolce” come quella immortalata da ser Francesco; presentata (figurarsi!) in caraffine col promettente nome di Manna di S. Nicola e l’immagine del Santo per arrota; chi avrebbe mai supposto, che Fosse così insidiosamente terribile? Se non che, é bene si sappia, era uno scopo essenzialmente filantropico che spingea quelle brave donne a diffondere la loro Acqua: la spacciavano per “carità del prossimo”! per liberare, cioè, “le sfortunate mogli dalla tirannia dei mariti, senza inimicizia fra le famiglie e senza macchia della reputazione”; poiché l’Acqua Tofana (siamo giusti!), amministrata a gocce contate nelle bevande o nelle vivande, possedeva l’incontrastato merito di mandare all’altro mondo sicuramente e prontamente, ma senza destar sospetti, anzi dando alle povere vittime “tempo e agio di provvedere all’eterna salute coi sacramenti”. Non c’è che dire, quelle donne la sapevano Iunga! Ma la Provvidenza, che non lascia mai di soccorrere ai miseri (benché talora un po’ tardi), caccia sempre a’ malvagi qualcosa tra le gambe, che li fa inciampare sul più bello del gioco. La morte visitava più spesso le case romane; però veniva tanto naturale e quieta, che lasciava belli e coloriti in volto e senza il minimo contrassegno di veleno que’ che colpiva: se non che, prediligeva troppo provvidente gli sposi che non andavano d’accordo con le giovani mogli, alle quali piaceva o un frequente rinnovamento di nodi conjugali o una vita completamente emancipata: cosicché se ne impressionò forte il pubblico e più il Fisco, che, mettendoci con arte lo zampino, seppe scoprir la magagna e ghermire le fiere avvelenatrici insieme a buona parte delle complici e farne esemplare giustizia. II nome di Manna S. Nicola, dovuto probabilmente ad un Frataccio ch’ebbe mani in pasta negli avvelenamenti romani, non fu il solo con cui si designò la famosa Acqua, né il più comune né il più celebre. Fu detta eziandio Acqua o Acquetta di Perugia, con che si viene ad indicare un altro centro di diffusione del veleno, oltre ai già noti di Napoli e di Sicilia: e fu detto ancora, dal paese di origine, Acqua di Palermo; e questo, secondo un poemetto popolare del tempo, "è il vero nome” , perché essa è l’Acqua “che la infame Tofania usò di Fare”. E però la denominazione di Acqua Tofana che rimase alla storia, e con ragione, perocché, in tal modo, consacrato all’’infamia vi passò il funesto nome della inventrice.
II. Ma che veleno era quest’ Acqua tofana? Storie, enciclopedie, trattati di chimica, poesie popolari, romanzi, si sono occupati di essa; ma fino a quì ogni indagine è tornata vana, non ha prodotto che supposizioni più o meno probabili, più o meno strane. Si ritenne fatta con “toschi maligni e succhi d’erbe”; si parlò di veleni minerali in genere, poi dell’arsenico mescolato a bava di porco; poi del risultato più complesso della miscela di vari ingredienti vegetali e animali; ma la verità restò ignota, essendoché il Tribunale che processò le avvelenatrici conobbe “il cattivo veleno bestiale”, ma serbò fedele un assoluto silenzio. Questo ci dice il poemetto popolare più su ricordato, che degli avvelenamenti e del supplizio delle cinque donne ci dà preziosi ragguagli con verità storica; e però era da ricorrere al processo criminale per avere completa la luce. E questa difatti ci viene adesso, e completissima, grazie al bravo Alessandro Ademollo che ha messo fuori un importante volumetto sui misteri dell’ Acqua Tofana (Roma, fipogr. dell’Opinione, I881), con la scorta appunto del famoso processo romano del 1659, che rinvenuto recentemente nell’Archivio di Stato in Roma, egli ha per primo ed egregiamente illustrato. E che ci dice il processo?. Eccolo qui con le deposizioni genuine di due donne, di una, cioè, delle principali accusate e della sua serva: “Si fa l’acqua con arsenico e piombo, che si mettono a bollire in una pignatta nuova, otturata bene, che non rifiati, fino a che cali un dito; l’acqua che ne resta è chiara e pulita; presa in vino o in minestra provoca il vomito; poi viene la febbre, ed in quindici o venti giorni si muore: bastano cinque o sei gocce per volta in ogni giorno per far l’effetto, e non altera il sapore della minestra né del vino ”. “Io dirò quello (dice a sua volta la serva) che mi ricordo che ho veduto che faceva la mia padrona quando voleva comporre la detta acqua, et era che pigliava un grosso di piombo limato, et un altro grosso di antimonio ed un pezzetto di arsenico cristallino; acciaccava I’antimonio e lo metteva dentro una pignatta piccola e ci metteva tant’acqua comune che arrivava sotto al collo della medesima pignatta, et poi la copriva col coperchio di ferro et acciaio che non sfiatasse; pigliava una pagnotta di pasta e stesa la metteva attorno attorno alla bocca della pignatta, acciò chiudesse bene il coperchio et la bocca di essa che non sfiatasse; et poi la metteva a bollire per un’hora, pare a me, poi la levava dal fuoco, la lasciava raffreddare e raffreddata bene la cavava fuora e la metteva in un fiaschetto o boccia quadra; per ordinario era solita di pigliare un giulio d’antimonio e un giulio di piombo per volta; ma quando la faceva ce ne metteva la metà solamente che viene a essere un grosso per volta, et questo se lo comprava lei e tanto diceva averne comprato che io lo vedeva; ma l’arsenico poi come lei se l’aveva io non lo so; vedeva bene che lei l’aveva, et se ne serviva come ho detto”. Ora non è dunque più dubbio: l’Acqua tofana risultava dalla miscela dell’arsenico, dell’’antimonio e del piombo. Che poi Ie processate rivelassero pienamente la verità intorno al segreto dell’Acqua ci è attestato dal processo stesso, nel quale è notato da una parte l’esperimento sopra un grosso cane con il veleno sequestrato nella casa delle ree, e d’altra parte l’esperimento sopra altro cane con il veleno ricomposto dai periti giudiziari sopra le indicazioni qui su riferite. Non occorre dire che gli effetti sulle due povere bestie furono sicuri ed identici, e non dissimili a quelli che dettero ai mariti il passaporto per l’altra vita.
III. Scrive il Pallavicino, nel Iibro V della Vita di Alessandro VII, che il fiero veleno “era venuto in Roma dalla Sicilia, per mezzo di alcune malvagie famine”. Il processo criminale conferma il fatto, facendoci sapere inoltre, che il segreto dell’Acqua famosa era stato portato da una Giulia Tofana di Palermo, la quale avea dovuto fuggirsi dalla nativa città con la figliastra Girolama Spana, essendosi scoperto che per veleno da lei preparato e amministrato da un tal Spadafora, era ivi morto un Ippolito Larcari ricco gentiluomo di Genova. La Giulia, che faceva la sensale di matrimonj, ed anche un po’ la fattucchiera, giacché “si intendeva di fisonomia”, contrasse in Roma relazione con molte persone di alto lignaggio; e così cominciò a farsi avanti, a trovar protezione e mezzo non infrequente di spacciare la ignota sua Acqua. Legame assai intimo ella ebbe con un Padre Girolamo di S. Agnese, che stava a S. Lorenzo fuori delle mura; ed in lui trovò un collaboratore attivo per la composizione dell’Acqua, perocché era appunto il Padre che le forniva l’arsenico, che i farmacisti non avrebbero a lei venduto. Giulia Tofana moriva, pare, circa il 1651 probabilmente nel suo letto, non essendo accertate le notizie che la fanno morta in un convento od in carcere e sottoposta a tortura: ma non morì con lei il segreto della sua Acqua, il quale era passato alla figliastra Girolama Spana insieme al valido e indispensabile aiuto del Padre Girolamo. La Spana occupò subito il posto della Tofana. Nel processo ella narra che i suoi genitori morirono in Sicilia e che fu figliastra di Giulia; si dice vedova di un Carrozzi fiorentino e vanta le sue relazioni con l’aristocrazia romana. Il Pallavicino la definisce “donna scaltra ed avvenente che avea adescati molti personaggi grandi quasi indovina dell’avvenire, e che più volte chiamata dal S. Uffizio, con varie industrie se ne era sempre liberata”. Una relazione sincrona, che si trova manoscritta in tutte le Biblioteche di Roma, dice: “Girolama Spana, la quale essendosi affezionata con le Dame Romane, per essere creduta indovina, cioè di dar conto delle cose perdute, che per esser riuscita veridica, e avverate alcune sue predizioni, con tali protezioni avvalorata, commetteva molte scelleragini coll’assistenza de’ cattivi spiriti, co’ quali avea commercio; onde anche le persone mediocri si dilettavano di trattar con essa, che per essere allegra col parlare, e col barzellettare, colli suddetti modi, et astuzie aveva fatto un grosso peculio, tenendo serva e servitore, e casa grande mobiliata alla Longara, e manteneva allo studio due figli maschi, et era così acclamata, che andando per Roma veniva da gran parte della nobiltà riverita; questa tal donna dunque con l’introduzione, e famigliarità, segretamente vendeva le garaffe d’acquetta, oppure come costa in Processo che ella stessa la dasse per “Manna di San Nicola” Ma la diffusione maggiore, lo spaccio più sicuro dell’Acqua poteva ottenersi presso il popolo, che più facilmente si lascia abbacinare e prendere all’amo. Da qui la necessità per la Spana di trovare collaboratrici che col popolo fossero in contatto diretto: ed ecco in iscena Giovanna de Grandis e Moria Spinola, a cui più tardi si aggiungono Laura Crispolti e Graziosa Farina. Queste due ultime appaiono soltanto come dispensatrici dell’Acqua: le altre due però la preparavano anche, essendo a parte del segreto. Maria Spinola, soprannominata Grifola, era pur siciliana, ita in Roma fin dal 1627, ed era entrata poi nelle confidenze e nella complicità, pare, di Giulia Tofana; ma attivamente non si messe all’opera che con la figliastra di costei. Giovanna de Grandis, romana, era cavamacchie, vedova per la terza volta di un Franchi, siciliano, fattole sposare già dalla Giulia; non era nuova, a quanto rivela il processo, né pel fisco né pel S. Uffizio, che per tre volte le avevano già messo le mani addosso. La Manna di San Nicola, quantunque dispensata per carità del prossimo, la condusse a tirar calci” al vento in Campo di Fiori con le sue quattro amiche e compagne. Lasciamole tutte li, e che buon pro gli faccia!
IV. I lettori avran senza dubbio creduto che alla Giulia Tofana si debba la invenzione e il nome della celebre Acqua; e l’hanno di fatto, creduto molti, e lo ritiene eziandio l’Ademollo il quale con le sue solite accurate ricerche trovando che in Napoli, circa al 1645, avea fatto anche le sue stragi un’acqua misteriosa che faceva “morire a tempo” non esita, riconoscendo in essa l’Acqua Tofana a scrivere che “la ricetta del veleno da Napoli passò in Sicilia e di là venne a Roma per mezzo di Giulia Tofana, dalla quale quel veleno prese il nome che gli è rimasto” La verità però non è questa, né la storia dell’Acqua tofana comincia da Napoli, né Ia Giulia ha parte del nome di essa. Vediamo di portare un po’ di luce da parte nostra. Leggo al num. 52 delle Notizie piacevoli e curiose ossia Aneddoti siciliani etc. di Gaetano AIessi, (manoscritto nella Comunale di Palermo, segnato Qq, H, 43) “Acqua Tufania”. Il celebre duca d'Alcalà 1). Ferdinando Afan de Ribera, Viceré di Sicilia dall’anno 1632 sino al 1635, ebbe la sorte di scoprire nel suo governo una scellerata femina chiamata Teofania, la quale dispensava cert’ acqua avvelenata la quaie dalla sua invenzione ne sortì il nome di Acqua Tufania: Egli comeché fu “scelerum implacabilis ultor”, d’un subito la Fece condannare a morte. Auria, Cronologia (pag. 98. Aprile, Cronol, pag. 334, col.1). Eccoci rimontati indietro di una dozzina d’anni dagli avveIenamenti di Napoli. Ma la notizia del buon parroco AIessi è troppo succinta; né particolari maggiori ci danno l’Auria e l’Aprile, ch'egli cita, né tampoco il Marchese di Villabianca che Io ricopia senz’altro nel vol. XXXII de’ suoi manoscritti Opuscoli palermitani, ove raccoglie le più riposte e minuziose curiosità dalia patria storia. Se Ia numerosissima serie de’ volumi dell’Archivio di Stato siciliano avesse dal Governo ottenuto locali e braccia sufficienti, noi potremmo convenientemente illustrare quest’ argomento dell'Acqua tofana e approfondire più che oggi non possiamo Ia conoscenza della storia e de’ costumi siciliani di quegli anni: ma que’ volumi rimarranno chi sa quanta ancora accatastati, come sono, in una soffitta, preda della tignola e dell’umidità. Rassegniamoci adunque, ei domandiamo a qualche cronista del tempo alcuna cosa di più concreto, giacché è inutile per ora sperare che l’Archivio di Stato ci appresti il processo criminale, che li certamente esiste, contro Ia Teofania e compagne. Da quant’è a mia conoscenza, un solo diarista risponde ad appagare la nostra curiosità. Nel Compendio di diversi successi in Palermo dall’anno 1632, cavato da un manoscritto di notar Baldassare Zamparrone palermitano, da Don Vincenzo Auria, io Leggo “A 18 febbraio 1633. Fu giustiziata Francesca La Sarda, come fabbricatrice di un veleno diabolico in acqua della quale solo dandone solo una stilla in qualsivoglia cosa faceva perdere il calore naturale, e fra tre giorni al più né morivano le persone morivano le persone che la bevevano, così in Palermo, come nel Regno. La detta Francesca La Sarda fu portata sopra un carro per la maggior parte di Palermo, con la Compagnia delli Bianchi. La giustizia si fece nel piano della Marina, dove si Fecero li catafalchi, e vi andarono da 60 mila persone: onde ne caderono due con danno (de catafalchi, non delle persone, s’intende), e però non si potè fare la giostra nel carnevale ” (v. nella Bablioleca storica e letteraria di Sicilia Del Di Marzo, vol.II, pug. 279: L. Pedone Laurie edit.). Siamo già all’Acqua ed agli avvelenamenti, numerosi per certo se il cronista ha cura di registrare che erano avvenuti non solo nella città di Palermo ma, nel Regno tutto. Però Francesca La Sarda non è la Teofania; dunque è una complice, una che possedeva dall’ inventrice il segreto e avvelenava o per conto di questa o per conto proprio. Ignoriamo se la cattura di La Sarda fu causa che si svolgesse la orribile trama, o se altre persona furono imprigionate con essa La Sarda, o se questa cantò nella consueta “ stanza dei tormenti”; fatto è che lo Zamparrone, poco più oltre, nota: “A dì 12 luglio 1633. Si fece l’orrenda ma giustissima giustizia di Teofania di Adamo, per aver dato il veleno a diverse persone con certa acqua maledetta, per la quale ne morirono. Ella uscì sopra un carro dalla cappella della Vicaria, mezza nuda e tinagliata. E dopo, supra la Vicaria fu affocata, e dal detto loco buttata, e poi appiccata e squartata” (loc. cit., pag. 281). Il cronista non aggiunge verbo: ma già i lettori, dalla diversità di trattamento che la Giustizia fa alle due avvelenatrici, La Sarda e Di Adamo, comprendono subito che la prima è una gregaria e che il tristo privilegio della invenzione spetta unicamente alla seconda, quantunque egli, il notaro, dica fabricatrice del veleno quella, dispensatrice questa. Se poi il fatto è l’inverso, io non so che vi dire; ma aggiungo che comprendo perché la Giustizia aggravasse la mano sulla esecutrice anziché sull’autrice. Il processo criminale ci solverebbe questo e altri nodi; ma il processo ancora non si può avere, e però bisogna contentarsi del fatto, che gli scrittori posteriori agli avvelenamenti concordemente designano la ’gnura Tufania come inventrice dell’ Acqua; e la tradizione, letteraria e popolare, gliela assegna ancor essa, ed afferma che appunto che da lei ebbe il nome di Acqua tufània. In una frase proverbiale, viva tuttavia, si dà del ’gnura Tufània a chi è conosciuta o sospetta avvelenatrice.
V A questo punto sorge spontanea la domanda: -La Giulia Tofana, indubbiamente di Palermo, in che relazione era con la Teofania D’Adamo? Appartenevano allo stesso casato? E allora com’è che, in questa, Teofania è il nome, mentre è cognome in quella? Davvero, ch’io non ho documenti per darvi una risposta sicura, decisiva: tuttavia se consideriamo che Giulia è depositaria del segreto dell’Acqua; ch’ella scappa da Palermo appunto quando si scopre l’avvelenamento del Larcari e proprio in quel torno di tempo in cui viene tanagliata, impiccata e squartata la Teofania; se consideriamo che in Sicilia, per antica usanza, viva e Fresca, tuttora, se accade che un genitore porti un nome di battesimo un poco fuori d'uso e strano, il popolo lo appicca per cognome a figli di lui (1); se consideriamo tutto questo), non peneremo a dar come figlia di Teofania la Giulia, figlia ed erede anche per gl’istinti omicidi e per la conoscenza e l’uso della mortifera Acqua
( 1) conosco una famiglia di nove membri, che fa cognome Frisina, ed intanto da tutti conosciuta col cognome di Ddècula, sol perché Ddècula (Tecla) era stata battezzata la madre. I figli tutti di tutti i membri sono chiamati eziandio col cognome Ddècula, che resterà. Tre fratelli e due sorelle di altra famiglia, Vitale, sono conosciuti e chiamati col cognome di Calcidonio, nome di battesimo del padre. E potrei moltiplicare gli esempj.
Se poi la mia supposizione anche qui batte una strada che non è la vera, anche qui debbo ripetervi: -Privi del processo criminale o di qualche altro documento che potrebbe esistere, come volete che io distrighi questa matassa genealogica?
VI. La mia notizia qui ha fine; ed io pubblicamente ringrazio l’egregio Ademollo, che con la sua pregevole blicazione m’ha porto occasione di riassumere la mal nota istoria della terribile e famosa Acqua, completandola e rettificandola colà ove ne aveva bisogno. E poiché ho sopra menzionato la tradizione popolare, riserbandomi di dare in appendice un cenno del poemetto che canta i delitti e la misera fine delle cinque Donne in Roma, mi consentano i gentili miei leggitori che io chiuda queste righe con una saporitissima canzona popolare siciliana la quale, rappresentando con un grazioso apologo della mosca in fregola i guai che incolgono alla donna accecata da colpevole amore, ci mette in iscena la 'gnura Tufània”, come quella che, nelle condizioni date dall’apologo, può prestar benissimo il suo nome al ragno omicida. E una canzona che illustra tutta la truce storia degli avvenimenti dell’Acqua tafana in Sicilia:
La musca chi si 'mbrogghia a la filinia (I) batti l’aluzzi cu ’na ’strema smània e cchiù di cchiù l’aluzzi si ’nfiIinia (2), grida pr’ajutu a la ’gnura Tufània. A Ia musca la testa cci sdillinia (3), la vita cci cunsigna vuluntària: giustu mi dissi me’ nunna Bittinia: “Vista nun havi cchiiù ’na musca làmia” (4)
(1) Filinia, ragnatelo. (2) Si ’nfilinia, si intrica nel ragnatelo. (3) Sdillinia, delira. (4.) Làmia, add.,venuta in fregola. La canzona fu raccolta, in Borgetto
APPENDICE ----- DI UN POEMETTO POPOLARE ITALIANO DEL SECOLO XVII
Adempiendo alla mia promessa, ecco qui, come appendice all’Acqua Tofana, un cenno del poemetto popolare del secolo XVII che, con verità storica, ci reca preziosi ragguagli su i delitti e il supplizio delle cinque Avvelenatrici in Roma. L’ho notato altrove, ma giova ripeterlo qui: questi Poemetti o Storie, come comunemente si chiamano, che son opera di illetterati cantori o di persone mezzanamente istruite; che da secoli hanno appagato ed appagano tutto di la fantasia ed il cuore de’ popolani, e si stampano e ristampano in tante città per tante volte quante noi non immaginiamo; queste Storie, io dico, valgono generalmente ben poca cosa se le consideriamo dal lato estetico; ma se si riguardano come rappresentazione di costumi e di abitudini de’ padri nostri, come testimonianza coeva, sincera e particolareggiata di cose e di avvenimenti che le storie dotte e le stesse cronache non registrano o cennano di volo, vedremo che non son poi affatto da rigettare e che, nell'attuale fervore di studj popolari, linguistici e storici, offrono al certo non poca importanza e valevoli sussidj. La Storia di cui vengo a occuparmi n‘è prova. Nata sotto la impressione del momento, essa concorda pienamente co’ risultati del processo or discoperto e con le relazioni sincrone, nel tempo stesso che dà chiarimenti maggiori e fa conoscere i sentimenti del popolo di Roma in quella sciagurata circostanza. Il suo titolo è questo: La nuova, e curiosa Historia/ del giusto castigo dato a/ cinque Donne/ In Roma, quali le Donne facevano, e dispensavano acque avvelenate con le/quali le Donne davano la morte ai loro Mariti. /Composta in ottava rima da Francesco Ascioni Napolitano./In Napoli per Pittante,1699,(con lic.de’ Sup.)/ E si vendono (sic) al Largo del Castello sotto la Posta.-
È un libretto in 8°, di pagine 8 non numerate, a due colonne. Cominciano le ottave a pag.3 e finiscono a pag.7; se ne contengono dieci per ogni pagina, meno che nella 7, che ne ha nove; in tutto 49 ottave non numerate. le pagine 2 e 3 bianche: nel frontespizio una rozza vignetta, che indicherebbe il Campo di Fiori in Roma, con la forca in mezzo e le cinque Donne pendenti da essa, ed a canto la Compagnia della Misericordia, i Boja ecc. Come si vede, la stampa è napoletana e posteriore di quarant’anni all’avvenimento; ma ch'essa non sia l’edizione originale potrei quasi affermarlo con sicurezza, conoscendo che gli stampatori di Napoli della fine del seicento (il Pittante, il Paci, il Monaco) non fanno che riprodurre numerose antiche Storie di tutta Italia, dandole come “nuovamente composte” e col nome di autori napoletani, quando esistono e son note le edizioni più antiche di altre città col nome degli autori veri. Francesco Ascioni, napoletano, sarà forse l'autore della Nuova Curiosa Historia come di altre tre di argomento diverso, a me note, che portano il nome suo e vennero pur fuori dai torchi degli stampatori suddetti; ma io ci ho i miei forti dubbj, e inclino a credere che il poemetto si debba a un romano e sia nato subito dopo lo impiccamento delle cinque Donne e in Roma stessa; e questo mi par si possa chiaramente rilevare e dalle particolarità tutte de’ Iuoghi e delle cose che si designano ne’ versi, e dalla mancanza di voci e frasi napoletanesche, e dalla menzione che si fa, nella stanza 29, del Capitano Loreto, che le ree condusse al patibolo, come tale che mentre il poeta scrive, tuttora “di Roma è Barrigello”. Ma venivano al contenuto della Historia. Dopo le solite devote invocazioni e la detestazione degli orribili delitti, l’autore ci narra che la misteriosa Acqua spacciata da queste Donne era composta “con toschi maligni e suchi d’erbe (st.4)”. Esse, le triste, erano “d’anni mature e non d’etade acerbe”:
Vennero dico da i Sicani lidi, una chiamata Geronima Spana e I’altra “Maria Spinola.... Hor queste fuora de i paterni nidi
sparsero tra di noi fama profana ch'una Astrologa fusse, et i segreti delle stelle sapesse, e de Planeti (st.5).
Qui fo notare, a conferma del detto, che è uno che sta in Roma che scrive, è romano, altrimenti non si lascerebbe uscire le parole tra di noi, che ripete anche nella stanza nona: noto inoltre, che la stampa dice Spagna e non Spana, ma è chiaro che è questo un errore tipografico, essendoché quel nome fa rima con profana come ancha per errore tipografico si legge Astrologia invece di Astrologa, ed io l’ho corretto e perché molto evidente e perché quell’ aggettivo ritorna non erroneo nella ottava che segue. Aggiungo che la Girolama, nel processo criminale ed in altre memorie del tempo, or è detta Spana, ora Spara: dev’esserci sbaglio di lettura che bisognerebbe correggere: io non mi posso decidere tenendo presenti i cognomi siciliani, perché sia il primo che il secondo hanno esistito ed esistono in Sicilia. Il poeta continua (stanze 6-II):
- Nella Longara ad habitar sen venne Geronima l’Astrologa cattiva che con le ciarle sue credito ottenne, dalle credole sue chiamossi diva; l'altra alli Monti la sua casa tenne delle Carrette al vicolo si scriva, e ritrovorno al praticar di horrore malvaggie donne compagnia peggiore. - Vicino a S. Lorenzo in Palisperna. stava una tale Giovannal de Granni, ct era cava macchie, arte sua interna come suol far chi ha imbrattati i panni: costei con queste una amicizia esterna presero dico in breve corso d'anni, e tutte tre poi fabricar quest’ acque con che più d'un, estinto in tera giacque. - Passar grido costor, ch’ acque del volto per far belle le donne haveano rare e quelle ancor con accomodarle molto( sic) sopra le altre virtù sapeano fare; delle più belle poi volgo più sciolto correano a furia per acque tal comprare (sic); studiano ogni di negletti crescer più di beltà con tai belletti. - Giunsero a queste tre due altre poi, Laura Crispolti, e stava alla Torretta,, e Gratiosa Farina a danni suoi, che soleva abitar spesso a Ripetta: queste, fur venditrici in ra di noi di quell’acqua cattiva maledetta... - Preser pensiero, e fu riparo e schermo, tal acqua di Perugia far chiamare, ma il vero nome è l'acqua di Palermo, che: [la] infame Tofania usò di fare; quanti in quella città più di un infermo sette, otto giorni non potea campare; acqua fatta così, che terminata -Acqua, che data a noi tra brodi, e vini cagionavano poi di morte impaccio...
Le donne, recandosi a comperar quest’acqua col desio di farsi belle, si fermavano a chiacchierare, secondo il costume donnesco, de’ fatti proprj e facenno lamento de’ tristi ed odiati mariti; ed allora le Avvelenatrici offrivano l’Acqua misteriosa per toglierseli dinanzi senza chiasso (st. 12 e 13).
Incominciarono a far più d’una prova con quell’ acque mortifere e secrete, acque alle quali un medico non giova che all’infermo non sia acqua di Lete; acqua che un sol rimedio vi si trova se, gustandola mai, pronto haverete succo di limoncello, ò pur di aceto, questo guarisce il mal, guasta il secreto. (st. 14).
Le Romane che si giovarono prime dell’Acqua instigarono altre a giovarsene come mezzo comodo a pigliar anche cento mariti (st.15); però i delitti vennero scoperti e le colpevoli arrestate e processate. Al Tribunale inquirente nulla fu occulto: la qualità del male che colpiva i mariti e “il cattivo veleno bestiale”; ma esso serbò fedele un assoluto silenzio (st. 20). le cinque catturande confessarono tutto, anche il numero infinito delle persone alle quali vendevano il veleno; onde dice il poeta,
prese ne furono poi la maggior parte delle donne cattive invedovate che consentirono all’ homicidio rio. (st.21).
Il Tribunale: va ancora più in fondo e chiama a esaminar l'Acqua, trovata in casa delle Avvelenatrici, i medici più dotti ed i più periti speziali di Roma; i quali la esperimentarono sugli animali, e videro che anche queste povere bestie “hanno vomito prima e poi la mornte” (st.22). Sparsa in Roma la fama della scoperta e dello arresto delle Donne, dapertutto, ove si scontravano vedove, Ia pubblica voce ripetea :- Ecco, “queste so’ ammazza-mariti “-(st. 23): e il poeta aggiunge:
- Et han ragione un tal pensiero havere, mentre non si vedeano altro per Roma solo vedove assai, ma con piacere de’ volti allegri e inanellata chioma; e gl’ huomini, nessun vestito avere di moglie estinta.... perché costor con dispietate voglie facean morir mariti e mai Ie moglie » (st. 24}.
Perché tutto il popolo potesse assistere al supplizio delle infami Donne, le forche furono erette non sul Ponte, ma in Campo di Fiori (st. 25). Le triste furono chiamate “a mutar sorte” sul patibolo il sabbato cinque luglio, su le nove ore: le svegliarono di prima mane mentre stavano senza sospetti e le cavaron di prigione non dicendo loro che le conducevano al Patibolo e il Capitan Loreto Ie fe montare in cinque carrozze. Nefla sala d’ingresso della prigione c’era “la Confraternita” per assisterle: e Geronima allora si accorge la prima che è ora di lugubri nozze e si mette a strepitare, a gridare, a piangere pe’ figli; però poco appresso si calma e da tigre si fa agnella (stanze 25-33). “Spopolano le case” quel di in Roma, e tutt’i sessi e tutte le età corrono in Campo di Fiori (st.34), ove quella circostanza vennero alzati tutt’all’intorno…..
...palchi, così come all’età antiche soleano alzar a Giostre e a steccati per vedere guerreggiar schiere nemiche; a un scudo l’uno i luoghi eran pagati…. e le case e le finestre un tal prezzo hanno che pagano pigion, quel di, d’un anno. Partirono i Carri da Torre di Nona tre in uno, due sù l’altro in questi modi: tromba avanti poi va che tocca e suona; e la causa dechiara, le lor frodi; corre al tocco di quella ogni persona; così parla colui ( che infami lodi!): Queste si fan morir oggi appiccate perché faceano l’acque avvelenate! (t.35-36)
L'orribile corteo procede con alla testa la Compagnia della Misericordia poi ‘viene il Capitano Loreto, barrigello, poi le carrette con le colpevoli; si girano molte strade della città “perché vedino tutte esempio tale” e la lugubre processione in nessun desta pietà, ma bensì letizia (st.37-40) Maria Spinola sale prima il patibolo; la segue Giovanna De Grandis (st.42-43): poi
- Graziosa la terza: ohimé che gratia! chi tal nome ti diè, non penso mai che tu havessi a soffrir tanta disgrazia, che si disgratiata a morir vai! (st.44)
Geronima Spana, cui tocco il quarto luogo, era
tutta sudata, e per’ sciugarsi il viso alzo le braccia, e fu sudor di morte... -Ella, esortando il popolo à pregare Dio per li falli suoi, salì la scala: non sò se allor potesse astrologare se havea, sorte benigna ò Stella mala; arte, ò modo non ha d’indovinare come può far se per la corda cala…….